Oltre al nome, ricavabile da un’iscrizione presente sul retro della tela, non si hanno notizie sull’identità dell’effigiata e il dipinto è uno dei rari esempi di ritratti femminili pervenuti di Angelo Crescimbeni, pittore bolognese la cui produzione è riconducibile al solo genere ritrattistico e che, grazie alla capacità di adeguarsi alle diverse destinazioni, fu largamente apprezzato. Nell’opera la grazia e leggerezza quasi rococò sono mitigate da un’impostazione sobria e misurata e dal fondo scuro e uniforme che, annullando i dettagli d’ambiente, concentra l’attenzione sul volto luminoso della giovane.

Il dipinto è già  segnalato dallo Zanotti nella Guida di Bologna del 1732 con assegnazione a Luigi Crespi, allora poco più che ventenne; ma si tratta di una concessione al desiderio del padre di lanciare il figlio Luigi in una fulgida carriera di artista.
L'opera porta infatti i segni di un larghissimo intervento di Giuseppe Maria, mentre il ruolo di Luigi andrà  riconosciuto nell'abbozzo iniziale e nella stesura pittorica della parte superiore.

La piccola tela rimanda al gusto per i ritratti a mezzobusto di servitori, pitocchi e mendichi che nel Settecento affascinava la committenza aristocratica e colpisce per l’accento di verità con cui sono resi i due soggetti – l’uomo, un servo ritratto con la divisa di casa, e il cane, un carlino, animale da compagnia – entrambi accomunati da un’identica natura servile e fedele. Allievo di Giuseppe Gambarini, Gherardini è noto per le “bambocciate” realizzate per la committenza privata, in cui riprende, spesso assemblandoli assieme, modelli e figure derivate dalle opere del maestro.

Eseguita per la chiesa bolognese di san Girolamo alla Certosa, la tela è databile intorno al 1778, l’ultimo periodo dell’attività di Ubaldo Gandolfi.

Il pittore che, all’epoca, insieme al fratello Gaetano, era uno degli artisti di maggior successo sulla scena bolognese, aveva scelto, negli ultimi anni della sua carriera, di dedicarsi soprattutto alla pittura sacra.

Nel dipinto, san Francesco da Paola assiste alla sfolgorante apparizione dell’Arcangelo Michele che gli consegna uno scudo con la scritta dorata Charitas, il motto dell’Ordine dei Minimi da lui fondato.

Ai piedi del Santo un angioletto tiene tra le braccia un agnellino, che ricorda l’amore per gli animali e in particolare per un agnellino domestico, attribuito al Santo dalla devozione popolare.

Lo schema della composizione, con la scena divisa in due piani e ambientata in un ampio e aperto paesaggio, rimanda all’ammirazione di Ubaldo Gandolfi per la grande tradizione pittorica bolognese, da Ludovico Carracci a Guercino, dalla cui pala con la Vestizione di san Guglielmo riprende l’accentuato chiaroscuro nella definizione dell’angelo.

Il dipinto è una delle due versioni dell’effige di papa Rezzonico realizzate da Mengs ed è da identificarsi con quella commissionata dal cardinale Carlo Rezzonico, nipote di Clemente XIII, per la sua residenza romana, eseguita con molta probabilità dopo all’altro esemplare, oggi a Spoleto in collezione privata. Attraverso una tecnica pittorica controllata e impeccabile, che esalta la qualità delle superfici e le preziosità dei particolari, Mengs rivitalizza la formula del ritratto ufficiale di antica tradizione, conferendo all’immagine del pontefice un senso di presenza calda e viva.

James Barry nel 1770, di ritorno a Londra dopo 5 anni di studio a Roma, si fermò a Bologna dove frequentò la Scuola di Anatomia e continuò i suoi studi artistici presso l'Accademia Clementina.
Durante il soggiorno bolognese dipinse quest'opera che rappresenta una scena tratta dal Ciclo di Troia in cui l'eroe greco ferito viene abbandonato dai compagni sull'isola disabitata di Lemnos.
Il soggetto inusuale dipinto con grande forza teatrale procurò a Berry l'aggregazione all'Accademia Clementina e aprì la strada alla sua straordinaria carriera londinese.