Il dipinto si collega al Ritratto di gentildonna in piedi con la figlia (inv. 849), analogo per dimensioni e impostazione; i due ritratti in pendant raffigurano una coppia di sposi con i figli e sono un tipico esempio della ritrattistica controriformata che prevedeva una netta divisione di genere, funzionale a evidenziare la rigida divisione dei ruoli che la società del tempo imponeva. Non si hanno notizie circa l’identità degli effigiati ma dal contegno, dall’abbigliamento e dai dettagli indagati con cura è possibile ricondurli al ceto aristocratico.

Unica oggi nota tra le numerose versioni del soggetto che l’artista dipinse, la tavola reca sul vaso che regge la maga una scritta, in greco e latino, che recita “Lorenzo Garbieri popolarmente [detto] il Nipote faceva”, allusione al soprannome dato al pittore dai Carracci e dovuto alle numerose raccomandazioni che uno zio del giovane seguace indirizzava loro. Da rilevare il modo spiritoso e malizioso con cui Garbieri tratta il tema, che restituisce efficacemente il carattere subdolo e malvagio del personaggio omerico.

Il dipinto si collega al Ritratto di gentiluomo in piedi col figlio (inv. 848), analogo per dimensioni e impostazione; i due ritratti in pendant raffigurano una coppia di sposi con i figli e sono un tipico esempio della ritrattistica controriformata che prevedeva una netta divisione di genere, funzionale a evidenziare la rigida divisione dei ruoli che la società del tempo imponeva. Non si hanno notizie circa l’identità degli effigiati ma dal contegno, dall’abbigliamento e dai dettagli indagati con cura è possibile ricondurli al ceto aristocratico.

In origine la pala era collocata sull'altare della Cappella Malvasia in Sant'Agnese, affiancata dai due laterali con San Giorgio e San Lorenzo.
Opera dal sicuro impianto compositivo e dall'incisività del tratto dimostra la raggiunta maturità dell'artista ed è databile al terzo decennio del Seicento.

Definita come copia da Tiarini nell’inventario dei dipinti del conte Giacomo Zambeccari (1796), la tela è stata in seguito ritenuta dalla critica opera del pittore bolognese. Colpisce il carattere drammatico della scena, accentuato da un cromatismo giocato sui toni bruni, mentre il taglio della composizione e il forte scorcio del corpo di Cristo, verso cui si protende contrita la Vergine, conferiscono un carattere di immediatezza all’episodio dipinto.

Eseguita nel 1617 per la chiesa di Sant'Antonio allora ricostruita, appartiene alla fase di maggiore felicità inventiva dell'artista alla quale spettano anche gli affreschi nella chiesa di San Michele in Bosco (1614) e la celebre tela della cappella di San Domenico.